Dalla fiction alla ricerca di verità: Intervista a Giovanni Battista Origo

Il regista e sceneggiatore Giovanni Battista Origo ci racconta il suo viaggio nel mondo del cinema: dalla casa di produzione Amaro Produzioni, a Tracce, ai corti di fiction fino al suo primo documentario lungo, girato insieme alla sceneggiatrice Elettra Raffaela Melucci (che abbiamo intervistato qui) un’opera ambiziosa che esplora il rapporto tra società e mondo transgender, con Napoli come sfondo emblematico.

 

  1. Giovanni, il tuo ultimo progetto rappresenta una vera sfida per te. Qual è stata l’urgenza e quali obiettivi ti sei posto?

L’urgenza del docu-film che abbiamo appena finito di girare con Elettra, è stato parlare di una comunità di persone trans e rispondere alla domanda: “Perché la società ha timore del mondo transgender?”

Sai, il rischio era quello di risolvere solo curiosità personali nei confronti del tema, cadendo nel didascalismo e magari nel voyeurismo. L’obiettivo invece è stato, e sarà in fase di montaggio, costruire un discorso collettivo, andare oltre la figura del femminiello, per raccontare storie di vita inserite in un contesto sociale concreto. Anche dal punto di vista della regia, abbiamo ripreso i racconti delle protagoniste, direttamente con occhio in macchina all’interno di un contesto molto neutro quasi a rompere una barriera, a parlare direttamente con lo spettatore.

 

  1. Ci parlavi della figura dei femminielli e di Napoli

Sì, Napoli è stata una scelta naturale per il suo legame storico con il femminiello che nasce come una figura sociale integrata nel tessuto sociale. I femminielli erano figure maschili che vivevano, si comportavano come donne, ci sono testimonianze antichissime su questo.

Poi Napoli ospita la comunità transgender più grande d’Europa. C’è anche un’associazione che è quella presieduta e fondata da Loredana Rossi, Associazione Transessuali Napoli, tra le più attive insieme a quella di Bologna.

 

  1. In che modo lavorare su un documentario ti ha messo alla prova rispetto alla fiction?

Passare alla regia di un documentario lungo è stato affascinante e complesso, e lo sarà anche ora in fase di montaggio, “terza riscrittura” di un film!

Ho sempre scritto e diretto fiction, ma con questo progetto mi sono trovato ad affrontare nuove prove, sia tecniche che narrative. Nella fiction hai la sceneggiatura, le opere di grandi maestri a guidarti. Il documentario è diverso. In Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti giocano ed elaborano continuamente linguaggi nel genere del documentario. Qui in Italia ci stiamo arrivando a quei livelli, stiamo costruendo i nostri maestri, i nostri “paletti”. Allo stesso tempo, però, questo ti dà molta libertà di creare tu il tuo linguaggio, e questo è molto stimolante.

 

  1. Quali sono stati i tuoi primi lavori e come hanno influenzato il tuo percorso?

Nel 2013 ho fondato la mia casa di produzione, Amaro Produzioni, ancora oggi attiva. Insieme alla Tandem film e a Enzo Giulioli abbiamo realizzato un film a episodi, In bici senza sella, che trattava temi del precariato. È stato bello perché siamo entrati veramente dentro il processo produttivo del film quindi dentro la logica del set fin da subito. Poi abbiamo prodotto altri corti: La notte del professore è stato presentato al festival Cortinametraggio e all’Ischia film festival, Gong è stato selezionato ai Nastri d’argento ed è stato presentato anche al festival Cortinametraggio, poi Maria – A chent’annos, un corto finanziato dalla regione Sardegna, presentato al festival del cinema di Roma e peraltro visibile sui canali Rai. Poi abbiamo prodotto un documentario che si chiama Under 18 a cui abbiamo collaborato come produttori esecutivi e artistici che trattava la condizione dei minori nelle periferie romane.
Ogni progetto è stato un’occasione per sperimentare e affinare il nostro stile. Ci siamo messi alla prova e ci siamo divertiti molto.

 

  1. Quanto è stata importante la tua esperienza a Tracce?

Tracce è stata fondamentale. Mi è stata consigliata da Giorgio Arlorio per la sua serietà e severità costruttiva. Ho imparato che una buona idea è solo l’inizio: la vera sfida è tradurla in una struttura solida. Ricordo ancora lezioni che mi hanno colpito, come quella in cui abbiamo sviluppato una storia partendo da una foto: un esercizio che mi ha insegnato flessibilità narrativa e il coraggio di abbandonare un’idea quando non funziona.
Anche l’incontro con Nicola Giuliano è stato illuminante. Sai, da studente hai l’immagine del grande produttore premio Oscar che ti guarda dall’alto della sua posizione, e invece no. Ci ha aiutato ad approcciare con il mondo della produzione che uno vede di solito come una “torre di Babele” e invece semplicemente è composto da una serie di fattori da conoscere bene e valutare, niente di impossibile. Mi ha insegnato poi l’importanza di saper sintetizzare un progetto in poche parole, un requisito fondamentale per dialogare con il mondo della produzione.

 

  1. Un consiglio finale per gli aspiranti registi e sceneggiatori?

Non affezionatevi troppo alle idee: il cinema richiede flessibilità, così come tanta autodisciplina. Questo vale anche per raccontare storie: se non riuscite a riassumere un progetto in poche parole, forse c’è qualcosa che va rivisto, e soprattutto se il vostro personaggio vi guarda ma non sa che dirvi, in quel caso, come ho imparato a Tracce, cancellate tutto e ricominciate daccapo.

 

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