Come si riconosce uno sceneggiatore

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Uno sceneggiatore scrive. Scrive sempre. Continuamente. Appena ha un momento libero, approfitta per guardare fuori dalla finestra e mentre guarda quell’incidente stradale con uno degli autisti che litiga con una donna incinta che a fatica esce dall’altra macchina, con alcuni passanti che adesso stanno prendendo le sue difese, lui pensa che questo incidente non sarebbe niente male come diversivo per una rapina in quella gioielleria all’angolo dove si dice che il proprietario tenga nel retro un armadio con i gioielli non blindato.

Proprio come diceva quel tipo losco, un paio di mesi fa, nel bar in cui lo sceneggiatore era entrato solo per comprare una bottiglia di vino pregiato per brindare ad una sceneggiatura terminata e non aveva potuto fare a meno di captare quel discorso, anche perché il tipo losco parlava al barman quasi urlando, proprio come chi si sta vantando. Ma potrebbe anche darsi che non si stesse solo vantando.

 

Uno sceneggiatore è solo. Dialoga spesso con se stesso, ascolta continuamente due sue voci interne costantemente in conflitto tra loro. C’è quella che dice che la storia sta procedendo benissimo, che le idee sul tavolo sono buone, che sta andando tutto per il meglio. Mentre quell’altra vocina, stridula e acida che sembra di vederla mentre esce da una bocca piegata in un ghigno malefico che dice che no, altro che procedere bene, è tutta una schifezza, roba già vista, ma quale produttore pazzo potrà mai mettere dieci centesimi su una storia così banale? E lo sceneggiatore ascolta entrambe le voci, ma poi decide lui.

 

Uno sceneggiatore non è solo. Attorno c’è silenzio e pace ma sa anche che presto questa pace si trasformerà in una strana inquietudine e che altrettanto presto scoprirà che ha bisogno di qualcuno di reale a rompergli le scatole. Qualcuno che gli dica che quella idea è fiacca, che quel colpo di scena di pagina 13 è telegrafato al punto che lo si immaginava già a pagina 3. Che quel personaggio è poco credibile. Che quell’ambientazione è inverosimile, che quel finale è scontato. Lo sceneggiatore sa che ha bisogno di un altro sguardo sulla sua storia. Un altro punto di vista.

Sa che ha bisogno di un compagno ideale. Uno che abbia la sua stessa idea di cinema. Se lui ama scrivere storie “plot-oriented”, orientate alla trama (un astronave sbucata dal sottosuolo comincia a lanciare missili fatti di lava incandescente e solo John, investigatore privato, alcolizzato e divorziato e con un’atavica paura del fuoco, che gli deriva da un trauma infantile, potrà sconfiggere gli alieni) difficilmente si troverà a suo agio con uno sceneggiatore orientato al personaggio che ha in mente una storia di un albero che non mette più foglie in primavera perché la ragazza che va sempre a sedersi sotto di lui adesso è depressa e l’albero se n’è accorto.

 

Uno sceneggiatore fa ricerche. Le stufe in ghisa delle vecchie case di campagna degli anni ’60, quelle con un’entrata stretta dove si fa fatica a inserire la legna, le confezioni triangolari del latte degli anni ’70, le carte da parati a motivi geometrici degli anni ’80, le auto della polizia degli anni ’90, le tecniche dei rapinatori dei furgoni portavalori in autostrada degli anni Duemila. Lo sceneggiatore è sempre immerso in mondi diversi e tutti quei mondi lui deve e vuole conoscerli a perfezione, ogni dettaglio, ogni paesaggio, ogni incrocio di strada urbana, lui c’è stato, e sa come è fatto e da chi è frequentato.  Uno sceneggiatore non smette mai di fare ricerche.

 

Uno sceneggiatore parla delle sue storie. A tutti, incessantemente. E non lo fa per vanagloria o per narcisismo. Sta facendo degli appositi test. Lo sceneggiatore sa che il modo migliore per sapere se una storia è davvero interessante è raccontarne un pezzo e aspettare che l’interlocutore dica la frase magica: “E poi che succede?”. Se accade, la storia, almeno quel pezzo lì, funziona. Al contrario, qualsiasi altra risposta “interessante”, “ah però”, “davvero?”, “Ma chi l’avrebbe mai detto” sono solo frasi di cortesia ma che in realtà significano “Capirai”, “che due palle”, “figuriamoci”, “ma che film scadente è?” e via cosi. Nessun altra frase appagherà lo sceneggiatore di “E poi che succede?”. C’è solo quella frase. La chiave del successo (o del fallimento) dell’intero cinema mondiale di tutti i tempi si regge solo su quella frase.

 

Uno sceneggiatore sa quando una sceneggiatura si produce e quando no. Sa che le sceneggiature che si producono non sono quelle che vengono da quelle pile di manoscritti che ogni editor o produttore di qualunque società di cinema, tiene relegate in un’apposita stanza. Quelle non le leggerà mai nessuno, stanno lì a perenne monumento delle Sceneggiature Ignote, cadute in una guerra persa ma che non finisce mai di perdere quello che ha da perdere. Le sceneggiature che si producono sono quelle raccontate in 40 secondi ad un produttore mentre sta bevendo un caffè scadente ad un incontro sul nuovo cinema afghano, col produttore che fa “si, si”, con la testa e che per togliersi di torno lo sceneggiatore gli dà appuntamento tra due settimane ad un incontro sul nuovo cinema pakistano. Dove, lo sceneggiatore, con grande sorpresa del produttore, sta bello li ad aspettare per finirgli di raccontare il film in 20 secondi. Lo sceneggiatore sa che se la storia c’è (e lui l’ha testata prima collezionando moltissimi “e poi che succede”), il produttore a quel punto dirà: “Sai che facciamo? Vieni domani mattina nel mio ufficio che ne parliamo per bene”.

 

Uno sceneggiatore ha sempre una scadenza. Lo sceneggiatore scrive sempre, ma non scrive per sempre la stessa cosa. Lo sceneggiatore si dà un tempo per capire se una storia può funzionare. Lavora così per naturale organizzazione. Quando scade il tempo, lo sceneggiatore ha davanti a sé due scelte. Infilare la storia incompleta in un cassetto, avendo cura di incollarci sopra un post it in cui annotare i problemi che fanno di questa, una storia da rimandare. Oppure decidere di proseguire, ma sapendo che allora si andrà fino in fondo e che la storia vale il tempo da impiegare per scriverla, vale tutte le rinunce, le ore da dedicarci sottratte alla vita dello sceneggiatore e che quella scommessa deve essere fatta razionalmente e non velleitariamente.

Lo sceneggiatore sa che è giusto così. Che bisogna abituarsi a lavorare sotto scadenza. Deve essere allenato a lavorare sotto scadenza. E sotto pressione perché sotto scadenza. Essere allenati a chiudere un lavoro rispettando il termine fissato è la differenza tra un dilettante e un professionista.

 

Lo sceneggiatore sa come ha imparato. Ricorda quando ha cominciato e quando ha imparato a lavorare bene e sotto scadenza. Quando ha imparato a chiudere una storia in un termine prefissato? E’ successo quando si è iscritto ad un buon corso di sceneggiatura: quando è stato costretto a scrivere di continuo, a confrontarsi ad ogni passo, a scegliersi uno o due compagni che gli andavano bene, a discutere di cinema con chiunque, a raccontare le sue storie ad altri nelle pause pranzo e rispettare tutte le scadenze, se non voleva subire cazziatoni mitici.

È da questo, sostanzialmente, che si riconosce uno sceneggiatore.

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