Esercitazione “C’eravamo tanto amati”: intervista a Elisabetta Lodoli

Elisabetta Lodoli durante l'esercitazione "C'eravamo tanto amati"
Elisabetta Lodoli durante l'allestimento del set

Un giorno di set così come dovrebbe essere, con tanto di preproduzione in tutte le sue fasi e i corsisti a coprire i ruoli dei vari reparti. Diamo la parola a chi ha svolto il ruolo fondamentale di tutoraggio: grazie all’esperienza di chi li ha guidati,  l’esercitazione è stata per gli aspiranti registi il loro primo vissuto professionale. Ecco come Elisabetta Lodoli racconta questa giornata di lavoro.

Un’esperienza impegnativa e altamente didattica: mettersi alla prova con una scena girata originariamente da Ettore Scola non è stato semplice per i ragazzi. Quanto è stato importante per registi in erba avere l’opportunità di misurarsi con l’entusiasmo ma anche con tutte le problematiche reali di un set?

Nelle scuole d’arte s’impara a disegnare e a dipingere copiando e copiare non è un esercizio passivo, anzi è l’opportunità di mettere alla prova, di esercitare il proprio segno, di capire limiti e differenze.

Penso che lo stesso valga nel cinema e lo ha dimostrato l’esercitazione che abbiamo fatto con gli allievi di regia della scuola Tracce “copiando” la prima scena della trattoria di C’eravamo tanto amati di Ettore Scola.

I futuri o aspiranti registi hanno intrapreso questa esperienza con molta serietà e diligenza accettando innanzitutto la necessaria divisione dei ruoli. Uno solo poteva fare il regista, ma tutto il gruppo ha capito l’importanza della collaborazione sul set e della responsabilità del proprio ruolo e il rispetto di quello del regista.

Altro elemento fondamentale di questo laboratorio è stata l’esperienza del limite: il limite di tempo, di mezzi, di budget. E’ fondamentale misurarsi e capire i limiti per poterli affrontare, superare o accettare. Il limite deve essere un motore per la creatività. E i limiti si incontrano in tutte le produzioni, anche quelle più ricche. Tracce ha messo il gruppo in condizioni di lavorare al meglio, non c’era nessuna differenza con una troupe di un film a low budget, anzi era un set “ricco” per un low budget. Mancava certo l’esperienza, ma la presenza sul set dei professionisti di fotografia, suono, costumi, edizione e regia ha permesso ai corsisti di imparare sperimentando sul campo come si realizza una scena di un film e soprattutto di capire quanto lavoro c’è dietro un film e quanto complesso ed articolato sia.

Elisabetta Lodoli Stefano Di Leo Emanuele Cecere esercitazione
Elisabetta Lodoli (regia), Stefano Di Leo (fotografia) e Emanuele Cecere (suono) durante un sopralluogo

A proposito di complessità, la parte più impegnativa dal punto di vista tecnico è stata la fotografia, perché la scena prevedeva un effetto di luce teatrale: la luce dell’ambiente si spegneva ad un certo punto e si accendeva un occhio di bue solo su un protagonista alla volta. A questo effetto di luce si combinava l’uso del dolly nella scena originale, sostituito da Tracce con l’uso di uno “slider” che ha permesso un movimento analogo ed altrettanto efficace.

E’ stato molto importante affrontare questa complessità e capire quanto tempo sarebbe occorso per raggiungere lo scopo. La scena era lunga e i corsisti avevano previsto molte inquadrature. Per poter portare a termine il piano di riprese previsto, il regista ha dovuto scegliere, riuscendo alla fine a garantirsi la cosiddetta “copertura” della scena.

Ora la parola passa al montaggio (con la supervisione di Claudio Di Mauro): in questa fase fondamentale, in cui si decide del senso, del ritmo e della continuità temporale della scena, si valuteranno anche le scelte fatte e gli inevitabili errori.

Durante la scena originale del film, un frate si avvicina al tavolo di Gianni, Antonio e Luciana, per fare il gioco delle tre carte e guadagnarsi qualche lira dai due uomini. In quel momento lo stacco… è uno scavalcamento di campo? Quando un’eccezione a questa regola fondamentale della grammatica della ripresa è lecita e non disorienta lo spettatore?

I corsisti si sono interrogati a lungo: in effetti, alla comparsa del fraticello, si avverte un salto. C’è uno scavalcamento di campo ma, a mio parere, è giustificato da ciò che avviene in scena.

E’ lecito chiedersi se questo scavalcamento di campo sia dipeso da un errore in fase di ripresa o da scelte successive in fase di montaggio o se Scola abbia ritenuto che non desse nessun fastidio e si sia concesso questa libertà.

Comunque siano andate le cose, è importante che gli allievi si siano interrogati sul problema dello scavalcamento di campo. L’eccezione alla regola è lecita quando non cambia il senso della scena, non distoglie dall’azione e dal sentimento, quando appunto non disorienta lo spettatore.

Ci sono stati autori, per esempio durante il periodo della Nouvelle Vague, che volontariamente commettevano “errori”, perché volevano disturbare lo spettatore, cioé non volevano che lo spettatore fosse passivo di fronte al film, ma fosse consapevole dell’artificialità del linguaggio cinematografico. Non è certo il caso di Scola, che pure ha sperimentato e mescolato linguaggi diversi, come si vede in C’eravamo tanto amati (narrativo tradizionale, documentaristico, teatrale, poetico “evocativo”). E che però non si è troppo preoccupato di uno scavalcamento di campo che, in questo caso, notano solo gli addetti ai lavori.

Elisabetta Lodoli sul set (slider)
I corsisti sperimentano lo "slider" per il primo piano di Luciana

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