Come scrivo i miei film. Paolo Sorrentino e le conseguenze dell’immaginazione

“La cosa peggiore che può capitare ad un uomo che trascorre molto tempo da solo, è quella di non avere immaginazione. La vita, già di per sé noiosa e ripetitiva, diventa in mancanza di fantasia uno spettacolo mortale. Prendete questo individuo con il papillon: molte persone nel vederlo si divertirebbero a congetturare sulla sua professione, sul tipo di rapporti che intrattiene con queste donne; io invece, vedo davanti a me solo un uomo frivolo. Io non sono un uomo frivolo, l’unica cosa frivola che possiedo è il mio nome: Titta Di Girolamo”.

 

In questo monologo di Titta De Girolamo, il protagonista de Le Conseguenze dell’Amore, secondo film di Paolo Sorrentino, c’è forse tutto l’anti-Sorrentino, un uomo che non sa immaginare e che perciò non vede niente di interessante attorno a sé. Titta Di Girolamo è un uomo solo, che vive in un albergo, che lavora per la mafia essendone prigioniero e che decide di ribellarsi senza un vero perché. Ma sopratutto lo fa senza pensare alle conseguenze. Probabilmente perché non riesce a immaginarle.

 

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Toni Servillo è Titta Di Girolamo ne “Le Conseguenze dell’amore”.

 

Paolo Sorrentino invece, immagina tutto. Conseguenze e antecedenze, un prima e un dopo, digressioni e rimandi, cause ed effetti. In ogni suo film c’è tanto da vedere, sentire e percepire, e nonostante questo c’è anche la sensazione che ci sia dell’altro, che si intravede appena, si sospetta, si intuisce, e del quale se ne vorrebbe sapere di più.

 

Nicola Giuliano, suo primo produttore, racconta spesso ai corsisti di Tracce cosa ha pensato quando ha letto per la prima volta un soggetti di Sorrentino: “capisci che ha un mondo dentro”. Per cui non ti chiedi, come invece fai, rispetto ad altri autori, se sarà in grado, dopo aver scritto un bel soggetto, di scrivere anche una bella sceneggiatura.

 

“Almeno per me – ha detto Paolo Sorrentino – ogni film è un tentativo di svelare un mistero. Scrivere per il cinema significa anzitutto mettere in scena il proprio mondo. E prima di scrivere, bisogna capire se si ha questo universo da raccontare, che ovviamente abbia la sua originalità, che non sia convenzionale o banale”.

 

Ultimo di tre figli, nove anni di distanza dal fratello, e 14 dalla sorella, Paolo Sorrentino vive una infanzia e adolescenza come un figlio unico, a stretto contatto solo con i suoi genitori dei quali osserva la vita, le amicizie, gli incontri, le feste. Il passato è fonte di ricordi da elaborare per trasmetterli ai suoi personaggi.

 

“Da bambino ero quasi condannato a osservare, perché di persone della mia età con le quali interagire non ce n’erano poi molte. Stavo con i miei genitori e con i loro amici. Se i grandi mi rivolgevano la parola era per coccolarmi in maniera un po’ paternalistica. Ho trascorso un tempo che nel ricordo mi appare infinito, a vedere mio padre giocare a carte seduto su uno sgabellino. Guardando una partita di poker tra adulti si impara tantissimo: le allusioni, gli sfottò, le dinamiche del gioco, le psicologie. Gli amici di mio padre erano estremamente simpatici. Il poker implica delle attese e l’attesa stimola il parto della follia degli esseri umani. Potrei parlarne per ore. Alcune follie che li riguardavano le ho saccheggiate mettendole nei personaggi dei film“.

 

Il cantante confidenziale del suo primo film, L’Uomo in più, quel Tony Pisapia interpretato da Toni Servillo e più tardi protagonista del primo romanzo di Sorrentino, Hanno tutti ragione con il nome di Tony Pagoda, viene in parte proprio da quelle serate tra cinquantenni con un ragazzino ad osservarli.

 

 

“Il sabato sera, i miei invitavano gli amici a casa, mettevano un disco di Califano o Sinatra e ballavano i lenti. Io, bambino, li guardavo incantato. Ho fatto il mio primo film, storia di un cantante confidenzia­le, perché mio padre ascoltava Califano. Ho trasfigurato mio padre o gli amici di mio padre, cosa che ho fatto anche nella Grande bellezza. Essere figlio di genitori molto grandi mi ha aiutato ad osservare. Mi ero creato un mio bacino di immagini, un mio bacino affettivo nei confronti di questi adulti che oltretutto avevano delle regole precisissime: le donne giocavano a conchè, gli uomini giocavano a poker. E tutto questo mi è servito”.

 

Oltre alla memoria delle persone, c’è quella dei luoghi. Luoghi che a volte causano paure che ci porteremo dietro per tutta la vita.«Con i ragazzini del palazzo andammo a esplorare salgarianamente un palazzo davanti al nostro condominio. Dal piano terra iniziavano i normali appartamenti, ma il garage era da anni un cantiere semiabbandonato. Nel buio, dal nulla, all’improvviso uscì una donna vestita di nero e ci inseguì urlando con una scopa. Per me e per altri due bambini fu uno choc e trascorse tanto tempo perché riuscissi ad addormentarmi come prima. Ci dissero che erano tossicodipendenti, per me erano fantasmi. Per addormentarmi avevo bisogno che in casa ci fosse mio fratello. Sapevo che prima o poi mi avrebbe raggiunto in camera. Ma mio fratello era un grande nottambulo, uno che per gran parte della sua vita è tornato alle 5 del mattino, un uomo misterioso. Uno dei dibattiti più accesi, in casa, era imperniato su cosa facesse in giro ogni notte fino all’alba. Mia madre meditava di pedinarlo. Io lo aspettavo. Fino a quando non sentivo la chiave entrare nella toppa restavo con gli occhi sbarrati. Avevo dieci anni ed è allora che ho percepito la paura e la necessità di venire a patti con essa”.

 

Personaggi, azioni, luoghi, e anche suoni. “Quello del battere del coltello che mia madre usava per tagliare gli gnocchi. C’erano rumori rassicuranti e rumori misteriosi. Quello che tutte le sere alle 9 proveniva dal piano di sopra non si è mai capito da dove arrivasse. Era come una biglia che rimbalzava sul pavimento. Ma quando chiedevamo spiegazioni alla proprietaria dell’appartamento lei cadeva regolarmente dalle nuvole. ‘Biglie? Ma vi pare?’. L’inspiegabile ha alimentato la mia assoluta convinzione nell’esistenza dei fantasmi. Mia moglie mi prende sempre in giro per questa mia certezza”.

 

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Il Divo. Toni Servillo interpreta Giulio Andreotti

 

Ma come si riesce a pescare dal proprio passato e ad estrapolarne gli elementi di un racconto odierno? “La malinconia è l’ideale per pescare le idee dal tempo dell’infanzia. Chi disse che ciò che accade di definitivo nella vita, succede entro gli undici anni? Per me è andata proprio così. Anche Il Divo è nato dalla suggestione di un ragazzino che vedeva continuamente Giulio Andreotti in tv. Quell’ uomo, evidentemente, aveva colpito molto il mio immaginario, forse perché per me coincideva con il lupo mannaro che, secondo quel che allora usavano dire magari scorrettamente i genitori, poteva comparire all’ improvviso in fondo al corridoio. Per Le conseguenza dell’ amore, andò allo stesso modo. Se ci si pensa bene,i bambini vivono ampi varchi di noia e di solitudine. E io ho capito che la solitudine di quando ero bambino si poteva trasferire a un uomo di cinquant’ anni. Quel film si sarebbe potuto chiamare Le conseguenze della solitudine“.

 

 

Pescare dalla propria infanzia ma anche dal passato recente. “Per La Grande bellezza ho fatto proprio questo. Questo film volevo farlo almeno vent’anni fa, quando da ragazzo venivo a Roma per lavorare e bazzicavo bar legati alla televisione e vedevo tutto il mondo che non esitava a frequentare quelle forme di squallore che io trovavo meravigliose e che mi hanno sempre suggestionato molto. Dirigenti che cercavano di abbordare le ragazze giovani, cose molto miserabili che su di me avevano una presa forte. Facevo un mio archivio di cose romane e di contesti per me misteriosi: la televisione, il Vaticano, la politica, queste feste mondane, tutte cose che non conoscevo venendo da Napoli, e che mi affascinavano e che ho voluto conoscere attraverso il film”.

 

 

Anche nel suo primo film americano, This must be the place,  ricorrono ricordi e immaginari: “Volevo misurarmi in maniera spudorata e spericolata con tutti i luoghi iconografici del cinema che mi hanno fatto amare questo lavoro sin da quando ero ragazzino: New York, il deserto americano, le stazioni di servizio, i bar bui coi banconi lunghissimi, gli orizzonti lontanissimi. I luoghi americani sono un sogno e, quando ci sei dentro, non diventano reali, ma continuano ad essere sogno. Questa stranissima condizione di continua sospensione dalla realtà mi è accaduta solo negli Stati Uniti”.

 

In quale momento tutti questi ricordi, frammenti di immagini, suoni, emozioni diventano scrittura? “La scrittura è un’altra cosa. Richiede, se non si vuole fare solo puro intrattenimento coi colpetti di scena, una moltitudine di sfaccettature, un’immersione nella vita passata e presente, insomma un complesso di coincidenze e talenti che potrebbero corrispondere all’intelligenza. Naturalmente, questa convergenza è rara e dunque si hanno sempre, a tutte le latitudini, molti bravi registi e pochi, capaci scrittori di cinema. Da sempre tengo da parte osservazioni, spunti, ritagli, cose che mi hanno raccontato. Per La Giovinezza ad esempio, in questa banca della memoria c’erano due reperti che hanno cominciato a lampeggiare. Uno era un fatto di cronaca: la regina Elisabetta aveva invitato Riccardo Muti a Buckingham Palace, ma non si erano messi d’accordo sul repertorio e lui non andò. La cosa mi colpì, perché da buon provinciale pensavo che alla regina non si potesse dire di no, ma Muti, napoletano come me, evidentemente si era sprovincializzato prima. La seconda era il ricordo di una cena con due uomini anziani che si erano messi a parlare di una ragazza di sessant’anni prima, ognuno voleva sapere se l’altro c’era stato. Non è che litigassero, ma si avvertiva una certa frizione”.

 

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Michael Caine e Harvey Keitel in Youth, La Giovinezza

 

E quando i ricordi diventano un vero e proprio film? “Il film non nasce dallo studio di una materia, a me vengono in mente dei personaggi più che delle trame. Una volta che individuo un universo, intraprendo una fase di documentazione. È un lavoro che faccio in maniera molto ossessiva, ma non appena vedo che l’eccesso di conoscenza del tema del film va a impoverire la mia immaginazione mi fermo. Infatti, ho la conoscenza delle cose imprecisa e incompleta. Ad esempio per La Grande bellezza cominciai ad andare alle feste, ma dopo essere stato a tre feste non andai più perché stava diventando una routine. Preferisco idealizzare certi mondi e riproporli così. E sono anche convinto che questo mi avvicini alla verità molto di più. L’Italia è un paese meraviglioso, gravida di un campionario umano vastissimo, eterogeneo, intelligentissimo, cialtrone, ironico o estremamente serioso“.

 

E alla fine ogni film è una sorta di terapia psicologica, un andare a ritroso per ritrovare sé stessi. “Io credo che sapere troppo di sé stessi sia pericoloso. E anche un po’ inutile. In fondo all’anima, rischi sempre di trovare un essere umano bolso e appesantito. E non ci sono diete per migliorare il sé. Sì, probabilmente avrei avuto bisogno, come tanti, di andare in analisi, ma ho sempre evitato. Non è detto che poi ci trovi chissà quale rivelazione su di te. Potresti anche rischiare di non trovare niente”.

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Paolo Sorrentino. (Foto Pietro-Luca-Cassarino-wikimedia creative commons)

 

Qualche anno fa, parlando del passato e della perdita dei suoi genitori quando era ancora adolescente, Sorrentino disse: “Avevo sedici anni e fu una tragedia indescrivibile. Le parole che conosco non sono adatte. Servirebbero le immagini, la disinibizione e il coraggio. Servirebbe un film. Ma non è detto che, nei prossimi anni, non vinca il pudore e racconti di questo. Anche se sono trascorsi tanti anni, ci vuole tempo per ponderare, vincere le resistenze”.

 

E a giudicare da quello che sappiamo dell’ultimo film appena finito di girare, La mano di Dio, ambientato a Napoli, proprio negli anni di Maradona e del Sorrentino adolescente, film di cui non si sa nulla, ma che forse sarà un ulteriore tassello nel passato di un ragazzo in cui mettere definitivamente ordine. Lo vedremo.

 

Le dichiarazioni di Paolo Sorrentino sono tratte dalle seguenti interviste:

http://farefilm.it/persone/ogni-film-svela-un-mistero-paolo-sorrentino-si-racconta

https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/12/06/paolo-sorrentino.html

https://www.repubblica.it/venerdi/interviste/2016/01/15/news/confessioni_di_un_anziano_quarantenne_paolo_sorrentino-137890679/

https://www.vanityfair.it/show/cinema/2020/05/20/intervista-paolo-sorrentino-inconsolabile-tristezza-degli-adolescenti

 

One thought on “Come scrivo i miei film. Paolo Sorrentino e le conseguenze dell’immaginazione

  1. Questo profilo di Sorrentino è come scavare nel Cuore di una persona… Parole che sono macigni che diventano totem e che Lui sta metabolizzando con il Cinema…dico IMMENSO e forse è sminuente.

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